Divanetto emerso dal sogno fra le poltrone nuove e ben reali, seggioline rivestite di seta rosa, tappeto da gioco di broccato assurto alla dignità di persona dacché, come una persona, aveva un passato, una memoria, serbando nell’ombra fredda del salotto di quei Conti la tinta del sole preso attraverso le finestre di rue Montalivet (di cui conosceva l’ora non meno della stessa Madame Verdurin) e le porte a vetri di Douville dove l’avevano portato e da dove guardava per tutto il giorno, al di là del giardino fiorito, la profonda vallata della *** in attesa dell’ora in cui Cottard e il violinista si sarebbero accinti alla loro partita; mazzo di violette e di viole del pensiero a pastello, regalo di un grande artista amico, poi defunto, unico frammento sopravvissuto d’una vita scomparsa senza lasciare tracce, riassunto d’un grande talento e d’una lunga amicizia, ricordo del suo sguardo attento e dolce, della sua bella mano grassa e triste mentre dipingeva; ingombro, gradevole disordine dei regali dei fedeli, che ha seguito ovunque la padrona di casa e ha finito col prendere l’impronta e la fissità d’un tratto di carattere, d’una linea del destino; profusione dei mazzi di fiori, delle scatole di cioccolatini, dilatatasi sistematicamente, qui come laggiù, seguendo un’identica linea di fioritura: interpolazione curiosa degli oggetti singolari e superflui che sembrano appena usciti dalla scatola in cui sono stati offerti e continuano per tutta la vita ad essere ciò che erano all’inizio, regali di capodanno; tutti quegli oggetti, insomma, che è impossibile isolare gli uni dagli altri, ma che per Brichot, assiduo frequentatore, da sempre, delle feste dei Verdurin, avevano la patina, la morbidezza delle cose cui s’aggiunge, dotandole di una sorta di profondità, il loro “doppio” spirituale: tutto questo, sparpagliato, risuonava davanti a lui come una serie di tasti che risvegliavano nel suo cuore somiglianze amate, reminiscenze confuse, e – come, in una giornata di bel tempo, una cornice di sole sezionante l’atmosfera – ritagliavano, delimitavano, per entro il salotto attuale che punteggiavano qua e là, i mobili e i tappeti, si rincorrevano da un cuscino a un portafiori, da uno sgabello al respiro d’un profumo, da un tipo d’illuminazione a una predominanza di colori, scolpivano, evocavano, spiritualizzavano, facevano vivere una forma ch’era come la figura ideale, immanente alle loro successive dimore, del salotto dei Verdurin.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La Prigioniera, tr. it. di Giovanni Raboni, pp. 310-312 - a cura di Elisabetta Brizio
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