domenica 29 agosto 2010

Elio Vittorini: Nome e lagrime

 






NOME E LAGRIME


Io scrivevo sulla ghiaia del giardino e già era buio; da un pezzo con le luci accese a tutte le finestre.
Passò il guardiano.
“Che scrivete?” mi chiese.
“Una parola” risposi
Egli si chinò a guardare ma non vide.
“Che parola è” chiese di nuovo.
“Bene” dissi io. “E’ un nome”.
Egli agitò le sue chiavi.
“Niente viva? Niente abbasso?”
“Oh no!” io esclamai.
E risi anche.
“E’ un nome di persona” dissi.
“Di una persona che aspettate?” egli chiese.
“Sì” io risposi. “L’aspetto”.
Il guardiano allora si allontanò, e io ripresi a scrivere. Scrissi e incontrai la terra sotto la ghiaia, e scavai, e scrissi, e la notte fu più nera.


Ritornò il guardiano.
“Ancora scrivete?” disse.
“Sì” dissi io. “Ho scritto un altro poco”.
“Che altro avete scritto?” egli chiese.
“Niente d’altro” io risposi. “Nient’altro che quella parola”.
“Come?” il guardiano gridò. “Nient’altro che quel nome?”
E di nuovo agitò le sue chiavi, accese la sua lanterna per guardare.
“Vedo" disse. “Non è altro che quel nome”.
Alzò la lanterna e mi guardò in faccia.
“L’ho scritto più profondo” spiegai io.
“Ah così?” egli disse a questo. “Se volete continuare vi do una zappa”.
“Datemela” risposi io.
Il guardiano mi diede la zappa, poi di nuovo si allontanò, e con la zappa ios cavai e scrissi il nome sino a molto profondo nella terra. L’avrei scritto, invero, sinoa l carbone e al ferro, sino ai più segreti metalli che sono nomi antichi. Ma il guardiano tornò ancora una volta e disse: “Ora dovete andarvene. Qui si chiude”.


Io uscii dalle fosse del nome.
“Va bene” risposi.
Posai la zappa e mia sciugai la fronte, guardai la città intorno a me, di là dagli alberi oscuri.
“Va bene” dissi. “Va bene”.
Il guardiano sogghisgnò.
“Non è venuta eh?”
“Non è venuta” dissi io.
Ma subito dopo chiesi: “Chi non è venuta?”
Il guardiano alzò la sua lanterna e guardandomi in faccia come prima.
“La persona che aspettavate” disse.
“Sì” dissi io “non è venuta”.
Ma, di nuovo, subito dopo, chiesi: “Quale persona?”
“Diamine!” il guardiano disse. “La persona del nome”.
E agitò la sua lanterna, agitò le sue chiavi, soggiunse: “Se volete aspettare ancora un poco, non fate complimenti”.
“Non è questo che conta” dissi io. “Grazie”.


Ma non me ne andai, rimasi, e il guardiano rimase con me, come a tenermi compagnia.
“Bella notte” disse.
“Bella” dissi io.


Quindi egli fece qualche passo, con la sua lanterna in mano, verso glia lberi.
“Ma,” disse “siete sicuro che non sia là?”
Io sapevo che non poteva venire, pure trasalii.
“Dove?” dissi sottovoce.
“Là” il guardiano disse. “Seduta sulla panca”.
Foglie, a queste parole, si mossero; una donna si alzò dal buio ecominciò a camminare sulla ghiaia: io chiusi gli occhi per il suono dei suoi passi.
“Era venuta, eh?” disse il guardiano.
Senza rispondergli io m’avviai dietro a quella donna.
“Si chiude” il guardiano gridò. “Si chiude”.
Gridando “si chiude” si allontanò tra gli alberi.


Io andai dietro alla donna fuori dal giardino, e poi per le strade della città.
La seguii dietro a quello ch’era stato il suono dei suoi passi sulla ghiaia. Posso dire anzi: guidato dal ricordo dei suoi passi. E fu un camminare lungo, un seguire lungo, ora nella folla e ora per marciapiedi solitarii fino a che, per la prima volta, nona lzai gli occhi e la vidi, una passante, nella luce dell’ultimo negozio.
Vidi i suoi capelli, invero. Non altro.Ed ebbi paura di perderla, cominciai a correre.
La città, a quelle latitudini, si alternava in prati e alte case, Campi di Marte oscuri e fiere di lumi, con l’occhio rosso del gasogeno al fondo. Domandai più volte: “E’ passata di qua?”
Tutti mi rispondevano di non sapere.
Ma una bambina beffarda si avvicinò, veloce sui pattini a rotelle e rise.
“Aaaah!” rise. “Scommetto che cerchi mia sorella”.
“Tua sorella?” io esclamai. “Come si chiama?”
“Non te lo dico” la bambina rispose.
E di nuovo rise; fece, sui suoi pattini, un giro di danza della morte intorno a me.
“Aaaah!” rise.
“Dimmi allora dov’è” io le domandai.
“Ahhh!” la bambina rise. “E’ in un portone”.
Turbinò intorno a me nelal sua danza delal morte ancora un minuto, poi pattinò via sull’infinito viale, e rideva.
“E’ in un portone” gridò da lungi, ridendo.


C’erano abbiette coppie nei portoni ma io giunsi ad uno ch’era deserto e ignudo. Il battente si aprì quando lo spinsi, salii le scale e cominciai a sentir piangere.
“E’ lei che piange?”chiesi alla portinaia.
La vecchia dormiva seduta ametà delle scale, coi suoi stracci in mano, e si svegliò, mi guardò.
“Non so” rispose. “Volete l’ascensore’”
Io non lo volli, volevo andare sino a quel pianto, e continuai a salire le scale tra le nere finestre spalancate. Arrivai infine dov’era il pianto; dietro un uscio bianco. Entrai e l’ebbi vicino, accesi la luce.
Ma non vidi nella stanza nessuno, né udii più nulla. Pure, sul divano, c’era il fazzoletto delle sue lagrime.



E.V. (1939)



 

Accio: Autoritratto con Nome (mio) e Lagrime (di chi mi dipinse e fotografò)



 


Autoritratto con Nome (mio) e Lagrime (di chi mi dipinse e fotografò)


Io sedevo, ad esempio, in un posto di mare: ero al sole, ero a un tavolo, ero dinanzi al mare… E non è che in quel pomeriggio a un tavolo tutta la mia vita?

Era all’intorno un grande piazzale. C’era, in fondo, il mare, il sole era stato sulle mie scarpe, quando m’ero seduto, e adesso era di là da me tre o quattro file di tavolini, cinque file di tavolini. Forse, anzi, non c’era più, era solo una cosa che c’era stata fino a un minuto prima.

Ma non era lo stesso tutto quello che non c’era? Inverni e monti, compagni avuti, viaggi compiuti… Erano cose che c’erano state. E non era che un pomeriggio di cose tutte già state la mia vita?

Un carro-botte passava, lo tirava un bue, e da tempo infinito innaffiava il piazzale.

Ma il piazzale restava bianco delal sua polvere, mai si oscurava di bagnato, ed era piuttosto l’acqua che si spegneva nella sua polvere. Erano in quella polvere tutte le cose ch’erano state? E può non essere che un pomeriggio di polvere tutta la mia vita?


Da “Il dubbio di vivere”, di Elio Vittorini, in “Nome e Lagrime”.


                                                       Ponza 1982


CDS detto Accio


sabato 21 agosto 2010

Claudio Di Scalzo: Il ragazzo che barò per perdere. Omaggio a Romano Bilenchi

   


                                             Sognavia, Tellus 30




IL RAGAZZO CHE BARO' PER PERDERE

Non riesco a dormire mamma perché ho assistito nel cascinale a un gioco ingiusto che non ho capito. Posso parlartene? Fabio giocava a carte con Sandro il figlio del Forni. In palio partita dopo partita a scopa c’erano i suoi giornalini. L’album completo delle figurine dei giocatori. Fabio giocando barava, mamma, per perdere. Lo capivo benissimo. E l’altro baldanzoso non se ne accorgeva o lo credeva rimbecillito. Gli ha portato via la collezione e come sorrideva allontanandosi. Ah Nardi sei un pollo! Hai trovato chi ti concia per le feste. Con questi giornalini leggo per un mese. E le figurine le rivendo. Lui annuiva con occhi mesti che non tradivano rabbia bensì indifferenza. Sulle sue labbra un sorriso impercettibile ha avuto un fremito. Non l’avevo mai visto così mamma! E la risposta che mi ha dato non l’ho intesa. Ma che cugino ho? Tu sei sua zia! Cosa c’intendi? Devo dirti per filo e per segno cosa gli ho chiesto? Fabio tu hai giocato per perdere, baravi contro te stesso, perché l’hai fatto? Mi ha risposto che se Sandro aveva bisogno di vincerlo per autostima, cosa vuol dire mamma di preciso?, lui aveva bisogno di sapere se gli era amico come diceva. Un amico che firma il patto dei polsi strusciati non è tentato dal distruggere il fratello trapper. Non intendere che l’ho fatto vincere o approfittarne dimostra una tale voglia di rivalsa che m’impedirà di stare con Sandro nelle battaglie sull’argine e assieme a rubare cocomeri ai contadini mentre i cani abbaiano. Fabio lo aveva messo alla prova! Non lo cercherà più perché è diventato come gli altri. Mi ha detto così! Mamma ti sembra giusto sottoporre gli amici a queste prove? A me cosa riserva? So che lo farà anche con me usando un altro gioco rovesciato nelle parti. Ma è buono o cattivo mio cugino, eh mamma. Anche il prete a volte non sa come intenderlo. Poi se penso a come stasera vive senza i suoi fumetti che ci aveva messo una vita per averli provo dolore! Voglio dargli i miei se non si offende! E’ così fiero. Anche perché son troppo belle le avventure che inventa lungo il fiume. Cosa vuoi dire che è un ragazzo difficile? Complicato! Quando saremo grandi, giovanottini, ognuno di noi troverà amicizia e amore in una ragazza? Bello mamma che succeda. Se non c’è bisogno di barare contro se stessi a me piacerà. E mio cugino cosa inventerà per sapere se amore e amicizia sono immensi? Meglio che dorma, ti do retta, gli occhi mi fanno pio pio, ma tu parlaci con Fabio. Te ti ascolta. E rassicuralo con questa storia che poi una fidanzata gli darà quello che lo farà star bene. La troverà dici eh mamma! Ah per questo lo credo anch’io. Speriamo non sia una che poi garba anche a me. Va bene dormo…


Claudio Di Scalzo
21 agosto 2010




martedì 17 agosto 2010

Claudio Di Scalzo: La risposta della Compagnia della metamorfosi

  

                                     Cds. "La Colpa a passeggio nell'Essere", metà anni Ottanta. Da TELLUS 30


LA RISPOSTA DELLA COMPAGNIA DELLA METAMORFOSI

Alla Compagnia della Metamorfosi al completo - Falco ferito, Pastore, Nuotatore provetto, Poeta ciarlatano, Scrittore, Saggista dilettante, Cane del Nulla - viene chiesto, alla Fondazione Emily Brontë di ****, al momento di ricevere una targa per i contributi pubblicati on line nell’estate 2010, come si diventa Autore per sfuggire al marasma dei testi che si decostruiscono anonimi uno sull’altro continuamente su carta stampata e sul Web, all’unisono la Compagnia, con i latrati del Cane del Nulla, risponde: “Per diventare Autore la catastrofe in amore deve essere irrimediabile e la colpa irredimibile”.
Il silenzio cala sull’aula magna, i volti sono sconcertati, una ragazza in piedi vicino alla porta esce singhiozzando: “Non è così! non può essere sempre così!”



Claudio Di Scalzo 
 
 
 
  

domenica 15 agosto 2010

Claudio Di Scalzo: Cuore Bruciante rettificato. Cardiodramma (1975-2010)



                                     Cds, "Cuore bruciante" 1975-2010 "Cuore bruciante idiot"


CUORE BRUCIANTE RETTIFICATO

Negli anni Settanta si diffuse la moda delle T-Shirt. Scelsi di inventarmele da solo con pennello e colore. “Cuore bruciante” assieme ad altre che realmente indossai, contavo di presentarle ad una mostra alla Galleria Peccolo di Livorno, all’interno della mia opera in progress, che tuttora nascosta dura: CARDIODRAMMA (Notizie nell’annuario TELLUS “Febbre d’amore. Stendhal + Web”, 2008. Volume esaurito). Poi se ricordo giusto partii, era luglio, con il Pazzo per la Camargue e le maglietta rimase soltanto sul mio petto accaldato e negli occhi di Daniela Cantelli e poi in una scatola fino ad oggi. Fedele al metodo Man Ray-Duchamp questo ritrovamento domestico agostano (che mi consente un’esatta datazione, fino ad oggi avevo soltanto una foto), l’ho “rettificato”, ottenendo un “episodio di Cardiodramma rettificato”, infatti sulla cucitura interna, dove sta scritto con la firma: “CUORE BRUCIANTE”, che già allora, nel 1975, rischiava di incendiare la stoffa, ho aggiunto: IDIOT. “CUORE BRUCIANTE IDIOT”, 1975-2010. Grazie al Web e al Weblog Tellus in love questa casuale riemersione vecchianese ferragostana di una T-Shirt può il mattino seguente stare in mostra 35 anni dopo. CDS


                                       Cds, "la maglietta bruciante di Accio", 1975


Il ritrovamento m’invita a dedicarmi ancora alle magliette spargendovi pubblicità-moda-arte-diario. Ampliando l’aspetto IDIOT di CARDIODRAMMA. Utilissimo per bilanciare il sublime che spesso fa cilecca. Dopo l’estate l’autunno, l’autunno che viene, che anche anagraficamente oltre che come da calendario 2010 mi riguarda. Anagraficamente intendo. CDS 




     

giovedì 5 agosto 2010

Eroma di Vecchiano: Il cane di Mustafà. Quintetto per guaiti alla luna

 



IL CANE DI MUSTAFA'
  
Il cane de Mustafà se faceva rubà l’osso pensando de meglio mangià
Il cane de Mustafà s’allentò il collare e se credeva in libertà
Il cane de Mustafà orinò sulla cuccia e s’immaginava de stassi a innamorà
Il cane de Mustafa se spulciava e pensava arte de creà
Il cane de Mustafà se masturbava e pensava de sta a ingravidà



Eroma di Vecchiano
5.VIII.2010