venerdì 25 febbraio 2011

Giacomo Cerrai: Dusciamp / Duchamp, ironia e reinterpretazione in Claudio Di Scalzo



          Giacomo Cerrai, elaborazione sopra Discalzo Dusciamp (1982), Mail-Art, Campanotto Editore, E rivista ZETA


I DUE SCIAMPI

(La rivisitazione di Giacome Cerrai, curatore del Blog IMPERFETTA ELLISSE è stata pubblicata su Face book il 25.II.2011)

SCIA DI COMMENTI (ACCIO-GIACOMO)


(ACCIO) ‎... stamani vado a scuola più pimpante! in avante solicello alpino e ricordino del mio Giacomino. Qui tra questa solitudine valligiana dove spesso m'affido agli anni a ritroso letti, con aspra malinconia, queste mie incursioni nell'umorismo neo-dadaista lievitano anche un altro sguardo su quanto mi accadde. L'abbinamento tuo è perfetto. In calce questa nota per i tuoi lettori e quelli di Fb, che pubblicai anni fa: "Di Scalzo Dusciamp", 1982, foto su carta. Quest'opera visiva, che rimanda a un miscuglio di Body Art, di citazione ironica del maestro francese, e di "Diario all'aperto", è comparsa su ZETA, n. 5/6, Campanotto Editore, 1983, anche come "Zeta Post", cartolina firmata, dono per gli abbonati; e poi, dato che ha sempre incuriosito molto gli addetti ai lavori, forse per la sua natura di "unicum" mai più duplicata, su L'IMMAGINAZIONE n. 10, 1985, "Antologia: "Una ricognizione poetico visuale" (Manni Editore) a cura di Lamberto Pignotti. (da FACEBOOK)


(GIACOMO C) - Ciao Accio, grazie per queste note biblio sempre utili, buona scuola- Un abbraccio


(ACCIO) - Caro Giacomo,... son io che devo ringraziarti. E' la prima volta, dopo dodici anni che sto in Rete, (V.A.O.L) con giornali da me inventati e diretti (Tellusfolio 2005-2009) e weblog (Tellusfoglio, Tellus in Love, Compagna Tellus ecc) che un autore e un altro blog (a parte il fraterno amico Marco Baldino) ospita il mio nome... un mio frammento visuale. Chissà perché!? 


(GIACOMO C) - Perché noi ti si vole bene,...vecchio corsaro.





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....ad aprile on line... Direzione Marco Baldino e Claudio Di Scalzo




mercoledì 23 febbraio 2011

Claudio Di Scalzo: Pensando al Duro Arturo S(chopenhauer). A SARA ESSERINO

                                         


                  Cds "Cinemino Orfico", tecnica mista, senza data




CDS: PENSANDO AL DURO ARTURO S

a Sara Esserino

A volte scoprendo note e commenti e citazioni su Facebook dei miei amici, che poi diventano interessanti intrecci e scenari filosofico-letterari-quotidiani, come quello scoperto oggi... (Vivre c'est survivre à un enfant mort (jean Genet)... mi viene vaghezza di "recitare" anche a me una piccola testimonianza (l'età sembra me lo consenta e anche certi esercizi che un tempo si sarebbero detti di Umorismo Nero)... e così suggerisco seguendo il DURO ARTURO S(chopenhauer)... se non sia il caso di non desiderare e pattinare sull'assenza da sé lenza per età tre di felicità: infanzia ciuccio giovinezza cruccio vecchiaia sbuccio del presto mortuccio.

Ma se uno ha la stoffa di un Mallarmé... può scrivere la sua sopravvivenza oltre la morte... metti di un figlio... quello del poeta si chiamava Anatole... o la morte del proprio poema bambino perché ha attarversato la strada trafficata dell'assurdo senza tenere per mano il suo papà... e questo è capitato a me! a febbraio... (CDS)



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a breve on line....

DIREZIONE

MARCO BALDINO/CLAUDIO DI SCALZO





sabato 5 febbraio 2011

Schumann e Clara Wiek da Tellus Mostre di Claudio Di Scalzo. SARA ESSERINO

 

                                 Fotogramma da Canto d'amore


Il cinema americano con "Canto d'amore" di Clarence Brown, nel 1947, ha raccontato la storia di Robert Schumann e Clara Wiek. Interpreti Katherine Hepburn e Paul Henreid.


venerdì 4 febbraio 2011

Julia Margaret Cameron: L'addio di Lancillotto e Ginevra. Da TELLUS MOSTRE a SARA ESSERINO

 




L'ADDIO DI LANCILLOTTO E GINEVRA

E' all’immaginario che si rivolge Julia Margaret Cameron, con la sua tecnica flou e la messa in scena “cinematografica” frutto di un’attenta regia che ci propone pochi dettagli messi a fuoco mentre il resto è lasciato all’immaginazione dello spettatore che non avrà difficoltà a vedere in quello sfumato un accenno di movimento, il risultato di un “mosso”. Sorprendente questa “preveggenza cinematografica” se pensiamo che il cinema degli albori consisteva di un’inquadratura fissa in cui gli attori si muovevano con fare teatrale. Nell’uso dei primi piani poi la fotografa supera addirittura la prima fase del cinema primitivo che, lo ricordiamo, è nato sedici anni dopo la sua morte - Data della fotografia 1874. (Claudio Di Scalzo)




giovedì 3 febbraio 2011

Gilles Deleuze: L’image et la penséé. Traduzione MARGHERITA STEIN 2 - Per lo prua pomona dell'Olandese Volante di Claudio Di Scalzo

      






GILLES DELEUZE

L’image et la penseéé

 Traduzione di Margherita Stein  

Per lo prua pomona 
dell'Olandese Volante 

di Claudio Di Scalzo Accio




Vorrei dire che, se non considero ancora i rapporti pensiero-cinema, ma cerco di condurli, di fondarli, sono sempre stato colpito da questo, significa che ogni esercizio del pensiero, filosofico o non, direi particolarmente filosofico, presupponeva una certa immagine che il pensiero si faceva di se stesso. Questa immagine presupposta del pensiero, non è facile liberarla. Inoltre cambia con la storia. Può dipendere forse da una causalità esterna, sociale storica? Non ne sono sicuro. Cambia con la storia, per il momento non posso aggiungere altro.

Sicuramente si possono attribuire delle cause a questa variazione, ma queste cause non dicono nulla sulla sua natura. Quindi immagino che ogni pensiero presupponga un’immagine del pensiero, un’immagine variabile .Per capire meglio ciò che si deve cogliere dall’immagine presupposta del pensiero, credo sia necessario non confonderla con ciò che tutti conoscono come metodo.

Pensare implica un metodo. Il metodo ha due aspetti. Per esempio c’è un metodo in Descartes. Un metodo in Kant. Bene! La filosofia può, in un certo modo essere definita esplicitamente come la metodologia del pensiero. Un metodo comprende due aspetti: un aspetto temporale: l’ordine dei pensieri. L’organizzazione dell’ordine dei pensieri è un aspetto del metodo. Poi c’è un altro aspetto: spaziale. Bisogna sapere che: la determinazione degli scopi, dei mezzi e degli ostacoli del pensiero caratterizza l’aspetto spaziale. Quali sono gli scopi del pensiero? Perché pensare? Quali sono i mezzi del pensiero? Come pensare? Quali sono gli ostacoli al pensiero? –ecco il secondo aspetto. Due sono gli aspetti del metodo. Dico che l’immagine presupposta del pensiero non si confonde col metodo, è piuttosto presupposta dal metodo. Il metodo non ci dice quale immagine del pensiero si fa da sé. Il metodo presuppone un’immagine del pensiero, implicita del pensiero. Un’immagine variabile, presupposta così dal pensiero, in quanto pensata da ogni metodo, come caratterizzarla nel modo più semplice?

Utilizzo una parola del glottologo e grande critico letterario Bakhtine: il cronotopo. Egli usa questa parola in un modo molto semplice. È uno spazio-tempo. È spazio-tempo o un continuum spazio-temporale. Ci dice per esempio che la domanda “cos’è il romanzo?” implica lo scioglimento dal cronotopo tipico del romanzo. Vale a dire un modello spazio-temporale presupposto dal romanzo. Allo stesso modo posso dire che c’è un cronotopo del pensiero, e che ogni metodo, dal proprio duplice punto di vista, l’ordine dei pensieri, l’ordine temporale dei pensieri da una parte, dall’altra la distribuzione degli scopi, mezzi e ostacoli, rinvia a un cronotopo del pensiero, un cronotopo che può subire delle variazioni, delle mutazioni. Senza mai essere dato. Ciò che è dato al bisogno è un metodo, ma il presupposto non è dato. Ci vuole uno sforzo speciale per liberarlo. Questo cronotopo del pensiero, questo spazio-tempo presupposto da ogni organizzazione spazio-temporale del pensiero...

Come riconoscerlo? È al suo interno che il discorso filosofico si sviluppa, senza però essere oggetto del discorso filosofico. Ques’ultimo, sviluppandosi, presuppone il cronotopo. Non può che essere delimitato, il cronotopo stesso. E ciò che lo delimita, non sono…





mercoledì 2 febbraio 2011

TELLUS 31. Yves Bonnefoy: Il crepuscolo delle parole. Traduzione MARGHERITA STEIN

                                                                


YVES BONNEFOY

IL CREPUSCOLO DELLE PAROLE


Si domandano cosa significa tale parola nella loro lingua, che hanno appena pronunciato ma senza capire perchè, talmente l’accezione sembri imprevista, talmente la frase dove è apparsa è rimasta ambigua, incerta, oscura. Essi sanno però ugualmente, da questo istante in cui una parola ha deluso la loro aspettativa, che non è stato un lapsus, un semplice incidente da dimenticare, in quanto numerosi sono i vocaboli, persino tra i più comuni, che hanno cambiato senso in questo modo, che rivelano nella loro profondità uno sconosciuto – e forse una vita intera – di cui i grandi letterati non hanno mai potuto presentire che in modo impacciato, come in sogno. Numerose, queste parole che cambiano?In verità, è quasi tutta la lingua che è percorsa da brividi, se non addirittura devastata da sismi. Se alcune parole, alcune correnti altre più rare, hanno soltanto presentato una sola proposizione, che all’improvviso si mostra ostinata, diventa sospetta, la maggior parte delle altre parole non smettono di trasformarsi, di sdoppiarsi – e di giocare così tra di loro, poiché il senso primo si conserva vicino ai nuovi usi e può anche cancellarsi, almeno durante i lunghi momenti dopo l’epoca di crisi. E’ necessario fare degli esempi? Evocherò allora questo sostantivo che ho dimenticato, ma che è l’ordinario, laggiù, perché noi lo chiameremmo una grossa barca(bateau) e nella lingua nobile una nave(navire). Una barca persino per lunghi periodi, nella parola comune, ma succede che in certi giorni, durante una conversazione tranquilla, o in un libro, che essa significhi il pozzo, o la barriera in legno che interrompe un sentiero da vicino o un’ape.Si pensava di parlare di una barca, ricordando quelle navi a vapore che fanno la navigazione da isola a isola e si è parlato dell’ape. Si sentiva la sirena, quasi si vedeva lo scafo blu nella pioggia d’estate, nella schiuma e bisogna riconoscere che siamo in un’erba fitta, dove si alza sempre il ronzio delle api. Allora è un colore, si direbbe il blu, quello del cielo, o anche l’indaco del mare interiore,nelle sere d’estate, si è detto, senza cambiare parole, nonostante ciascuno abbia indovinato questa volta che questo cielo, questo mare, queste rive laggiù, la distanza nascosta dai suoi fumi fossero rossi, semplicemente e pienamente rossi. La parola ‘blu’ può significare ‘rosso’, aihmé o persino ‘giallo’ o ‘viola’; può significare ancora altre cose.

“La parola non si è nemmeno ascritta, chiede qualcuno – poiché le discussioni non finiscono su questo soggetto, sospettiamo che è lo scambio più comune, delle persone che non si conoscono agli angoli delle strade, inseguendolo per qualche istante, lasciandolo, talmente sono di fretta, senza forse essersi guardati soltanto, senza più dirsi arrivederci -, dall’impressione che si ha guardando la prora della barca, mentre si avvicina al molo, con quei vecchi pneumatici che ne proteggono la lamiera nera, e quelli che arrivano lassù, sulla passerella, in gruppo ci guardano, ah, così intensamente? Dico proprio l’impressione, questa volta, e non più la cosa, penso a questa emozione di ritorno ancora più intensa della scala che si spiega e della porta che si apre nella parete bullonata? – Deve esserci stato questo senso, risponde un altro passante (si ferma), ma non veramente così semplicemente come l’avete suggerito. La parola ‘blu’ per dire la nostra emozione quando la barca è al molo, quando la scala tocca la terra? Per me designerebbe piuttosto questo bordo di luce, si, dico bene, di luce che avvolge alcuni dei viaggiatori mentre scendono.Quella donna con un bambino, vedete? Secondo me..” Forse ha ragione e c’insegnerà la verità, ma la parola che usa in questo istante crea problema. In differenti modi, alcuni completamente nuovi, le persone che l’ascoltavano lo comprendono. Si esclama (con gentilezza,del resto), ci si guarda furtivamente, si continua la discussione in gruppi più piccoli, tracciando a volte dalla punta di un dito, molto velocemente, una specie d’ideogramma nel palmo dell’altra mano. E lui, l’infelice, che sapeva, cha avrebbe potuto dire, scuote una spalla, si allontana.

Mi sento un po’ solo, in questa folla. Immagino diverse occasioni, bisogni, situazioni di semplice piacere o d’urgenza dove, per colpa soltanto di uno o due fonemi, il mondo può disfarsi, l’azione paralizzarsi, il sogno pervertirsi – e gli esseri, per quanto vicini si sentano, si scoprono all’improvviso separati dalla carenza dei segni. “Ma no, mi assicura il mio compagno di viaggio, dopo aver indovinato il mio pensiero. Ah, è vero, abbiamo temuto il peggio all’inizio, abbiamo avuto paura di essere soli, paura di gridare nel vuoto, paura di morire e ci sono casi di follia ancora sconosciuta, di suicidi e di sommosse persino, quel sovrappiù, dimenticato d’altronde, di letteratura – ma subito si è capito che tutto sarebbe andato per il meglio. Poiché esistono queste urgenze, come voi dite, è il bisogno di decidere e di agire e anche quello di condividere, che ci sono sembrati per quello che sono veramente, non è vero, delle insidie. E quelle filosofie che avevamo un tempo! Quelle nozioni reputate immutabili perché le parole, che le ricevevano, erano lo stesso suono, per sempre e non finivano mai di volatilizzarsi, di trasformarsi in altre, senza che noi avessimo il diritto di notarlo, o la felicità di tirarne le conseguenze! Noi ripetiamo che un gatto è un gatto, come voi lo fate ancora, sembrerebbe; o piuttosto, diciamo meglio, noi pensavamo fosse la stessa barca che era partita e che ritornava, la stessa persona quella che arrivava, tenendo il bambino per mano, e quella che avevamo lasciato, un tempo: ma tutt’altro, il bambino cresce e l’uomo e la donna cambiano, o meglio è il cielo sopra di loro o il mare a non aver più quei colori che essi avevano così amato? Niente resta identico a se stesso tra gli esseri, le cose, perché aspettarselo dalle parole? Credetemi, esse hanno avuto pietà di noi. Lungi dal voler confondere l’evidenza cominciando a cambiare senso, esse ce l’hanno offerta più chiara, mentre brilla sotto le loro correnti contraddittorie e rapide, quindi trasparenti, come un’unica pietra molto vicina: l’unità di tutto ciò che è..

Parliamo, è vero, nei nostri viali, sotto lanterne – e guardatele che si accendono dell’effetto più bello non è vero? -, noi argomentiamo e facciamo dialettica, ci appassioniamo persino o ci angosciamo per i problemi che le parole presentano, ma è soprattutto, credetemi, della gentilezza: la cortesia senza alcun sfondo di morale che abbiamo inventato, per mantenere con gli altri un rapporto di cui di fatto, grazie alle parole che cambiano, noi non abbiamo più bisogno. Un gioco per aiutare la vita urbana, un semplice gioco, amico mio..”.

I crolli, mi dico, le parole che significano la casa, quella casa laggiù, col suo burrone e l’upupa davanti alla sua porta, o un gregge che si allontana, o la luce della sera – che non evocano altro improvvisamente che un abisso, rivestito di grandi rocce fatali? Mi sono separato dal mio compagno, e ora vado a caso, attraverso i viali e le piazze. Tappezzeria agitata da un vento, non so dove, in questa città. Gruppi che si fanno e si disfano come se una forza superiore alla pesantezza, chimerica e cangiante, chiamasse ad ogni incrocio del fondo strade senza limiti.Resisto ora agli sguardi che implorano un istante di conversazione, mi libero anche da quelle voci che da vicino m’interpellano, così dolcemente, è vero, così gentilmente! Qui, ad un angolo del viale, sotto un albero, un anziano signore in ginocchio, il torso nudo, le mani giunte, la testa riversa all’indietro, ripete senza tregua, con voce rauca, una parola, una sola parola, sarà forse d’altronde il nome di un dio. E là un altro, più giovane, fa un discorso, è radioso a coloro che sono attenti per un istante, poi con una parola crea in loro imbarazzo e se ne vanno scrollando la testa e altri prendono il loro posto. Cosa ha detto loro? Se capisco bene, i salti d’umore delle parole non sono così gravi come si era creduto. Questo disordine ha delle leggi, sebbene non ne conosca che una ed egli, il filosofo, l’ha compresa. Si crede di passare da un significato ad un altro, negli istanti di mutazioni semantiche, ma si resta nello stesso colore, poiché la barca è blu, non è vero (o rossa), come la barriera sul sentiero o il pozzo alla fine del prato o l’ape? Ne consegue che questo preteso caos non è altro che l’involucro sottile di una grandiosa rivelazione: non esistono che sette grandi cose, miei amici, come ci sono sette colori. Salvo che noi non vogliamo saperlo, ci ostiniamo a sentire ‘blu’ o ‘verde’ – e perché? – nei momenti in cui bisognerebbe semplicemente percepire l’affioramento della vena rossa? Vado. Senza numero queste case basse, dal fragile legno dipinto in tinte chiare, con quel poco di fogliame sopra le porte e queste lanterne che brillano tra le foglie: ma le porte sembrano aperte su stanze nere e vuote, tutti coloro che ci vivevano dunque sono fuori ora, errano in questa vaga sera di cui non si vede l’altra riva? E com’è lento a cambiare, questo crepuscolo che smorza le forme, ma ravviva alcuni colori? Su queste stoffe ci sono delle pozzanghere d’acqua, delle nuvole, molti toni leggeri quasi come rumori, ce ne sono altre più sature e violente, barche che passano da lontano, che chiamano la notte con il loro corno da nebbia. Vado. Mi sembra che l’universo non sia altro che una spianata infinita, dove ci s’incrocia in tutte le direzioni, senza molto rumore, dove ci si pianta persino: poiché ci sono famiglie qui e là, accovacciate, mentre altre si stringono intorno al fuoco il cui fumo sale diritto, mescolando a volte i due colori. Ho allora la tentazione di fermarmi, di nuovo guardo i bambini che sono seduti là, sopra una tela rigata di nero, gli occhi fissi nell’aria che sale tremando. Bambini tristi, mi pare. Come se già sapessero che la notte non smetterà più di cadere, tra i fuochi senza calore. Mirabile potere delle parole, del tempo che ci resta, mi ha detto un amico: fare in modo che il fuoco bruci. Che grazie al nome del fuoco, non ci si avvicini troppo alla fiamma con il palmo delle mani tese.

Vado, vado. A voi che camminate ora al mio fianco senza dire niente – voi mi avete abbordato poco fa molto civilmente, ma senza motivo – io confido nel pensiero che si forma in me, vagamente, dal mio arrivo in questo mondo. “La poesia, mi sentite dire, la poesia non è ciò che impedirebbe alle vostre parole di cambiare senso? E avete sorriso. “Ma si, mi dite, si sicuramente. Esistono ancora, abbiamo dei poeti, dei grandi poeti. Come si prendono, non so, del resto essi s’incagliano quante volte, persino tra i più esperti, i più intensi. Noi iniziamo a leggerli in pace, silenziosi ed ecco che una parola…Forse essi stessi hanno avvertito la ferita, così viva, nella luce dell’origine. I bei poemi non resistono più, ne sono certo. Basta ritornare ad essi – ma chi lo fa? Sapete bene che non ci si pensa affatto –perché il vento sia il vento, pienamente, misteriosamente il vento, e vi abiti: che la parola ‘vento’ non significhi altro che il vento.Avremmo così mille cose fondamentali e reali; mille parole sarebbero i pastori di mille altre.

Le cose, si, sono allora tentato di dirvi. Ma gli esseri? La donna di cui parlavamo, quella che aveva preso la barca in un mattino di vento sul mare e che ritorna oggi? Che sia un’altra all’improvviso e colui che l’aspettava ha dovuto capirlo, e cosa può fare se il vento in questo istante è lo stesso vento di sempre, cosa può fargli sebbene esista un mondo? Non ci sono già troppi cambiamenti negli esseri, amico mio, abbastanza rinnegamenti, ardori febbrili, metamorfosi negli esseri da far temere per la parola? Se noi smettiamo di poter amare, come mantenerla trasparente?”

Non mi rispondete chiaramente, questa volta. Vi accontentate di mormorare che la parola poesia, nella vostra lingua, sia la stessa che significa volontà, amore, la morte addirittura, cioè insomma la vita. E dite ancora che non è cambiare senso. E’ soltanto indicare a chi vuol capirlo fino in fondo che, queste nozioni ambigue, incerte – e oscure, se è la parola – hanno attinenza con l’oggetto stesso, nell’aldilà del linguaggio.

Traduzione Margherita Stein

(Saggio estratto da ‘Rue traversière’ Poésie, Gallimard, 1992)


Yves Bonnefoy (Tours, 1923), professore emerito di Studi comparati della funzione poetica al Collège de France di Parigi, è poeta, prosatore, traduttore e saggista fra i maggiori del Secondo Novecento. Ha tradotto Shakespeare, Donne, Keats, Yeats, Petrarca, Leopardi ed è autore di studi fondamentali sulla poetica e l’arte compresa fra il primo Rinascimento e l’epoca contemporanea. Massimo poeta francese vivente ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali. Le sue opere principali sono apparse presso alcuni dei maggiori editori italiani. Il suo volume Tutte le poesie è in preparazione, a cura di Fabio Scotto, nei Meridiani Mondadori. Bibliografia Sintetica: L’Improbabile, Sellerio, 1982. L’impossibile e la libertà. Saggio su Rimbaud, Marietti, 1988. Lo sguardo per iscritto. Saggi sull’arte del Novecento, Le Lettere, 2000. Trattato del pianista, Archinto, 2000. Seguendo un fuoco. Poesie scelte 1953-2001, Crocetti, 2003. Osservazioni sullo sguardo, Donzelli, 2003. Il disordine. Frammenti, San Marco dei Giustiniani, 2004. L’Entroterra, Donzelli, 2004. Ieri deserto regnante seguito da Pietra scritta, Guanda, 2005. La civiltà delle immagini. Pittori e poeti d’Italia, Donzelli, 2005. La comunità dei traduttori, Sellerio, 2005. Terre intraviste. Poesie 1953-2006, Edizioni del Leone, 2006. Goya, le pitture nere, Donzelli, 2006. Le assi curve, Mondadori 2007. Il grande spazio, Moretti & Vitali, 2008