Venezia, luce evenemenziale - Foto CDS
VENEZIA LA PAROLA E LO SPETTRO
Avanzamento del cadavere, stadio che va oltre l’inespressiva liquefazione, lo status di Venezia è assimilabile, ha scritto Giorgio Agamben*, a quello dello spettro, vale a dire a quello di un trapassato che in modo inatteso appare, emette segni e talora parole indecifrabili. Lo spettro è la somma di quei peculiarissimi richiami “che il tempo scalfisce sulle cose”, tracce incise come concrezione dell’accaduto in quell’andito particolare della nostra flânerie. La spettralità è dunque una configurazione progredita dell’esistenza, possiede una vita esclusiva e postuma, e tuttavia, proprio per il fatto di essere compiuta e di non avere altro futuro, è incomparabilmente consapevole e scaltra. Come una lingua morta, o spettrale dice Agamben, Venezia non si riferisce a noi alla maniera in cui non si rivolge alle forme del passato, delle quali non conserva la memoria. E “proprio per questo è come se fosse essa sola per la prima volta a parlare”. Come tale, da simbolo della dissoluzione, Venezia trasmuta piuttosto in ”emblema della modernità”, e la sua parola muta e meravigliosamente argomentante quanto a espressività e a rilevanza significante differisce dalla condizione glossolalica di un tempo “novissimo”, “ultimo e larvale”, che nel suo inappagamento misconosce la propria compiutezza mentre mima un simulacro di futuro:
“Chi abita Venezia ha familiarità con questo spettro. Esso appare improvviso durante una passeggiata notturna quando, scavalcando un ponticello, lo sguardo scantona di lato lungo il rio immerso nell’ombra, dove una finestra lontana accende un barlume aranciato e su un altro, identico ponte, un passante che guarda gli tende uno specchio annebbiato. O quando, lungo le zattere deserte, la Giudecca quasi balbettando sgronda sulle fondamenta insieme alghe marcite e bottiglie di plastica. Ed era ancora lo stesso spettro che, grazie all’eco invisibile di un’ultima nota di luce indefinitamente tenuta sui canali, Marcel vedeva avvolgersi nei riflessi dei palazzi in ambagi sempre più nere. E, prima ancora, all’origine stessa della città, che non nasce, come quasi ovunque in Italia, dall’incontro fra il mondo tardo antico al tramonto e le nuove, barbariche forze, ma da estenuati fuggiaschi che, abbandonando le loro ricche sedi romane, ne portano con sé nella mente il fantasma, per stemperarlo in acque, striature, colori.”
*G. Agamben, “Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri”, in Nudità, nottetempo 2009, pp. 59-65.
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