giovedì 29 luglio 2010

Rosa de mes nuits d’été. Hommage à Guillaume Apollinaire

 


                                    Eromatizzante per ogni stagione

  

Rosa de mes nuits d’été. Hommage à Guillaume Apollinaire

Petit conin qu’on délaisse
Ma jolie raccommodeuse dont le cul noir
De tes yeux jaillit même quand tu les voiles
Cette obscure clarté qui tombe les étoiles
Les mots trop tendres que tu dis s’enroulent autor de ma pine

Les anges déchargeaient au sein du crépuscule
La nuit venue dans notre chambre mettait de l’encre sur les murs
Mettait de l’encre entre tes jambes entre tes nichons
Mettait de l’amour dans les lombes

Eroma di Vecchiano - 1980



 

martedì 20 luglio 2010

Poeta Ciarlatano. Trittico del luglio 2010



Cds, "Poeta Ciarlatano", tecnica mista su carta e velina



POETA CIARLATANO. TRITTICO 2010

1
Avevo sopracciglia estese come da qui, Marinella di Sarzana, fino a Lerici, con tanti occhi sotto e tutti si strizzavano d’intesa con un pubblico che aspettava da me poesia ciarlatana. Avevo, per contabilità, occhi quanti i nasi all’insù che guardandomi sul palco mi credevano capace di ogni sparata poetica falsa e dissonante. Crescono strani animali a lato della poesia vera e dei veri poeti, io sono uno di questi.

2
Dall’urna, scattando come una molla, usciva fuori il Poeta Ciarlatano dal volto color pece, e accompagnato da una monotona musichetta che sembrava il vibrato del vento, cantava stonato: “Hai amato uno come me ciarlatana sei anche te…”
Questo assurdo carillon veniva donato come consolazione dagli Dei dell’Olimpo agli uomini e alle donne che si affidavano alla strampalata metamorfosi degli amori realisti.

3
Il cerone del buon senso etico si scioglie sul mio viso nonostante i becchini siano dei visagisti eccellenti.

-Non ci attacca su questa pelle, dice sconsolato uno.
-Non è abbastanza fredda?, chiede l’altra.
-Il Poeta Ciarlatano muore e resta caldo nella sua deficienza superficiale! Non lo sai?! Mi chiedo cosa hai imparato dalle sepolture in un anno!
-Tutto il necessario, non essere severo, converrai però che questo poeta è eccezionalmente ciarlatano!, rispose la becchina.
-Sì!, le foto verranno disgraziatissime, la maschera funebre buffa come era in vita! Ma che possiamo farci!?
-Chiediamogli di essere nel caldo rigor mortis un tantino freddo, per la foto e la bara da esporre, insomma un po’ meno ciarlatano.
-Idea eccellente, le cadaveriche ostinazioni nichiliste ciarlatane sono dure da abbellire, ma il nostro cadavere converrà che è meglio collaborare! Signor Poeta Ciarlatano morto!, mi scusi, potrebbe accogliere sul viso, per un attimo, il tempo di svolgere il nostro lavoro, questo benedetto nitore della serietà poetica che impone la tradizione?, conviene anche a lei, sa!, lascerà un buon ricordo ai parenti in immagine, agli amici, nell’ovale, nei sogni di chi lo ama?, collabora?

Accenno, per quanto possibile, data la mia situazione, a un diniego muovendo il futuro teschio.
Sconsolati i becchini, lei avvenente fra l’altro, mi sbattono il coperchio della bara in fronte. “S’arrangi!”, esclamano all’unisono, “nessuno lo ricorderà!, nell’album dei poeti ciarlatani estinti quest’anno a luglio non sarà presente.
Spiro, soddisfatto, e senza trucco sugli zigomi, convinto, anche se nessuno ne serberà memoria, che io ero il migliore Poeta Ciarlatano in circolazione! Per un motivo molto semplice! non sono stato neppure un granellino poeta, ma soltanto un perfetto, completo, incredibile ciarlatano e basta!





   

mercoledì 14 luglio 2010

Claudio Di Scalzo. La metamorfosi del Pastore


  


LA METAMORFOSI DEL PASTORE

Il Pastore raggiunse l’Albero delle metamorfosi in una notte afosa di luglio. Era un pino a ombrello nella macchia che si apriva verso il vicino mare. Le pecore dormivano nella radura inquiete, sembravano parole candide in cerca d’una qualsiasi altura. Il piano ribolliva quell’anno d’angosciosa calura e anche il Pastore ne era segnato nella fronte, nelle madide braccia, nei pensieri arsi e scabri. Il Pastore cercava l’essenziale, lui umile pastore senza cultura e senza grammatica, lo inseguiva per il suo “parlessere” altre volte storpiato nel bizzarro “esserepecor’io”, cercava il reale di una condizione inesprimibile tra sogno d’amore e racconto orale dello stesso. L’Albero delle metamorfosi gli avrebbe parlato, l’avrebbe istruito come l’anno precedente, sui miti greci, sui rischi e le soluzioni che la bellezza concede ai mortali. La fuga possibile anche se per una manciata di tempo dal Niente, dal fagocitante nesso di lui particolare con l’universale. E se di mancanza fosse segnata, ormai, la sua vita che almeno potesse esprimerla con un atto di parola poetica, da pastore, ma poetica. Tanto da scontare la Colpa della sua ignoranza, di accettare lo scacco di avere smarrito la verità. L’Albero delle metamorfosi diede la sua risposta ritirandosi da ogni scambio con l’ardito pastore che cercava quanto a lui non consentito. L’Albero, strumento del volere degli Dei, avrebbe punito chi cercava di andare oltre alla solita lanugine posticcia e consunta nello “scrivere” dell’amore, che lo raccontasse nel modo a lui adatto gli sarebbe stato invece concesso. Però come deciso dagli Dei e dal loro strumento l’Albero delle metamorfosi. Il pastore attese, chiese alla pianta di parlargli, ma il silenzio era totale attorno a lui. Poi avvertì che la sua gola, glottide, corde vocali, lingua si stavano modificando: dalle sue labbra uscirono versi bestiali, animaleschi, che quasi svegliarono le pecore. Era come se gli Dei gli dicessero che il mondo si regge sulle mezze misure, sugli accomodamenti, sui linguaggi di cartapesta!, chi sei tu pastore per chiederne altri! Attraverso l’Albero della metamorfosi strumento divino gli avevano concesso l’essere pecor’io a lui adatto: esprimersi come tutti gli animali del creato che conosceva, mai più come uomo. Anche il suo pianto fu atroce, lo visse come un bue, come un cavallo, come un allocco. Lo stesso il riso demente che lo agitò: rise come una gazza come un maiale nel trogolo come un agnello verso la lama. In una notte scontava la Colpa della sua stoltezza, dei suoi fallimenti, della sua illogica esistenza di pastore amante della poesia.
Rialzatosi dal manto di aghi di pino, come se lo avesse bastonato ogni ramo che vedeva sopra di lui, gli scoccò l’ultima scintilla di “realismo”, una residua vocazione a scoprire la comicità anche nelle sventure supreme. M’intenderò meglio con gli animali che custodisco, si disse, di poeti è pieno il mondo, di pastori con questo marchio di impoeticità solo io. Albeggiava e decise di far vedere al suo petto nudo, contenente il dolore infinito di quel nuovo linguaggio, e al gregge il mare con la sua immensità. Sulla spiaggia, seguendo un impulso inspiegabile, saluto il gregge, si tuffò nell’acqua verde diventando un Nuotatore provetto. Andando in cerca dell’abbraccio a cui era stato chiamato. Un’altra metamorfosi. L’ultima?


Marinella di Sarzana - 14 luglio 2010






  

martedì 13 luglio 2010

50 piccoli omicidi importanti

  


Lenzuolo matrimoniale verde acqua


2
Ammazzai la pensata felicità che faceva vibrare il lenzuolo, verde acqua, steso al sole di luglio come un sudario.

Una scelta dei "50 piccoli omicidi importanti" comparirà sull'Olandese Volante in uscita nel dicembre 2010. Claudio Di Scalzo 

mercoledì 7 luglio 2010

Mi ritorna in mente: “Andrea Bocelli: Melodramma”. Romanzo rosa illustrato 1

 



IL CANTANTE CIECO DI LAJATICO

Mi ritorna in mente che nel 1988, abitando a Casciana Terme, al primo piano del palazzo accanto a quello delle Terme (nella foto si intravede) che guarda a Est sulla piazza della chiesa, e ad ovest sui Giardini delle Terme, udii Andrea Bocelli cantare, alla sera, per villeggianti e signore in "cura" di bellezza non avendone bisogno. Se mi a affacciavo dalla finestra di cucina avrei visto il cantante in piedi sul palco.

-Lo senti come canta bene, Claudio, questo cantante di Lajatico, questo farà strada!
-Questo tra dieci anni è ancora lì nel giardino, il solito patetismo del cantante cieco. Non attacca più…


°°°

MI RITORNA IN MENTE. ROMANZO ROSA ILLUSTRATO
 
Inizio questo “Mi ritorna in mente”, romanzo rosa illustrato con tessere di ricordi, ho un’età che me lo permette, con questo “incidente” di valutazione su di una voce ineguagliabile. E’ la mia figura da scemo. In contropiede la ricordo, tanto alcuni miei amici la conoscono, e questo ha allargato a ogni altro mio intervento in materia di canto quest’ombra di scemenza valutativa. Ma è pure un episodio umoristico e come tale narrazione. Unisco il video, che umoristico non è, dove voce e immagini lambiscono un sublime anche Kitsch anche banale, ma io, da sentimentale, mi commuovo all’amore che sempre ha, se lo si vive, se lo si è provato, elementi di melodramma. Elementi anche di scemenza. La scemenza più bella della vita. (E questa è una frase zuccherosa ma che me la bevo tutta!). Immagini anche di estenuante dolcezza e dramma. La poesia e la prosa con questi elementi devono farci i conti, perché riguardano il soggetto umano, e anche chi scrive. Per me sono un suggerimento da "Filosofia della scomposizione". Il tentativo scrivendo di lambire anche lo zucchero senza consegnarsi ad esso. Valga questo incipit come una riparazione al cantante di Lajatico, paesino oltre le colline di Casciana Terme, su acque livornesi; valga come protezione verso me che domani parto incontro alla mia Terra-mare! Claudio Di Scalzo discalzo@alice.it


ANDREA BOCELLI: MELODRAMMA







  

venerdì 2 luglio 2010

Venezia e la parola dello spettro

  

                                                Venezia, luce evenemenziale - Foto CDS
  

VENEZIA LA PAROLA E LO SPETTRO

Avanzamento del cadavere, stadio che va oltre l’inespressiva liquefazione, lo status di Venezia è assimilabile, ha scritto Giorgio Agamben*, a quello dello spettro, vale a dire a quello di un trapassato che in modo inatteso appare, emette segni e talora parole indecifrabili. Lo spettro è la somma di quei peculiarissimi richiami “che il tempo scalfisce sulle cose”, tracce incise come concrezione dell’accaduto in quell’andito particolare della nostra flânerie. La spettralità è dunque una configurazione progredita dell’esistenza, possiede una vita esclusiva e postuma, e tuttavia, proprio per il fatto di essere compiuta e di non avere altro futuro, è incomparabilmente consapevole e scaltra. Come una lingua morta, o spettrale dice Agamben, Venezia non si riferisce a noi alla maniera in cui non si rivolge alle forme del passato, delle quali non conserva la memoria. E “proprio per questo è come se fosse essa sola per la prima volta a parlare”. Come tale, da simbolo della dissoluzione, Venezia trasmuta piuttosto in ”emblema della modernità”, e la sua parola muta e meravigliosamente argomentante quanto a espressività e a rilevanza significante differisce dalla condizione glossolalica di un tempo “novissimo”, “ultimo e larvale”, che nel suo inappagamento misconosce la propria compiutezza mentre mima un simulacro di futuro:

“Chi abita Venezia ha familiarità con questo spettro. Esso appare improvviso durante una passeggiata notturna quando, scavalcando un ponticello, lo sguardo scantona di lato lungo il rio immerso nell’ombra, dove una finestra lontana accende un barlume aranciato e su un altro, identico ponte, un passante che guarda gli tende uno specchio annebbiato. O quando, lungo le zattere deserte, la Giudecca quasi balbettando sgronda sulle fondamenta insieme alghe marcite e bottiglie di plastica. Ed era ancora lo stesso spettro che, grazie all’eco invisibile di un’ultima nota di luce indefinitamente tenuta sui canali, Marcel vedeva avvolgersi nei riflessi dei palazzi in ambagi sempre più nere. E, prima ancora, all’origine stessa della città, che non nasce, come quasi ovunque in Italia, dall’incontro fra il mondo tardo antico al tramonto e le nuove, barbariche forze, ma da estenuati fuggiaschi che, abbandonando le loro ricche sedi romane, ne portano con sé nella mente il fantasma, per stemperarlo in acque, striature, colori.”

*G. Agamben, “Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri”, in Nudità, nottetempo 2009, pp. 59-65.
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