NOME E LAGRIME
Io scrivevo sulla ghiaia del giardino e già era buio; da un pezzo con le luci accese a tutte le finestre.
Passò il guardiano.
“Che scrivete?” mi chiese.
“Una parola” risposi
Egli si chinò a guardare ma non vide.
“Che parola è” chiese di nuovo.
“Bene” dissi io. “E’ un nome”.
Egli agitò le sue chiavi.
“Niente viva? Niente abbasso?”
“Oh no!” io esclamai.
E risi anche.
“E’ un nome di persona” dissi.
“Di una persona che aspettate?” egli chiese.
“Sì” io risposi. “L’aspetto”.
Il guardiano allora si allontanò, e io ripresi a scrivere. Scrissi e incontrai la terra sotto la ghiaia, e scavai, e scrissi, e la notte fu più nera.
Ritornò il guardiano.
“Ancora scrivete?” disse.
“Sì” dissi io. “Ho scritto un altro poco”.
“Che altro avete scritto?” egli chiese.
“Niente d’altro” io risposi. “Nient’altro che quella parola”.
“Come?” il guardiano gridò. “Nient’altro che quel nome?”
E di nuovo agitò le sue chiavi, accese la sua lanterna per guardare.
“Vedo" disse. “Non è altro che quel nome”.
Alzò la lanterna e mi guardò in faccia.
“L’ho scritto più profondo” spiegai io.
“Ah così?” egli disse a questo. “Se volete continuare vi do una zappa”.
“Datemela” risposi io.
Il guardiano mi diede la zappa, poi di nuovo si allontanò, e con la zappa ios cavai e scrissi il nome sino a molto profondo nella terra. L’avrei scritto, invero, sinoa l carbone e al ferro, sino ai più segreti metalli che sono nomi antichi. Ma il guardiano tornò ancora una volta e disse: “Ora dovete andarvene. Qui si chiude”.
Io uscii dalle fosse del nome.
“Va bene” risposi.
Posai la zappa e mia sciugai la fronte, guardai la città intorno a me, di là dagli alberi oscuri.
“Va bene” dissi. “Va bene”.
Il guardiano sogghisgnò.
“Non è venuta eh?”
“Non è venuta” dissi io.
Ma subito dopo chiesi: “Chi non è venuta?”
Il guardiano alzò la sua lanterna e guardandomi in faccia come prima.
“La persona che aspettavate” disse.
“Sì” dissi io “non è venuta”.
Ma, di nuovo, subito dopo, chiesi: “Quale persona?”
“Diamine!” il guardiano disse. “La persona del nome”.
E agitò la sua lanterna, agitò le sue chiavi, soggiunse: “Se volete aspettare ancora un poco, non fate complimenti”.
“Non è questo che conta” dissi io. “Grazie”.
Ma non me ne andai, rimasi, e il guardiano rimase con me, come a tenermi compagnia.
“Bella notte” disse.
“Bella” dissi io.
Quindi egli fece qualche passo, con la sua lanterna in mano, verso glia lberi.
“Ma,” disse “siete sicuro che non sia là?”
Io sapevo che non poteva venire, pure trasalii.
“Dove?” dissi sottovoce.
“Là” il guardiano disse. “Seduta sulla panca”.
Foglie, a queste parole, si mossero; una donna si alzò dal buio ecominciò a camminare sulla ghiaia: io chiusi gli occhi per il suono dei suoi passi.
“Era venuta, eh?” disse il guardiano.
Senza rispondergli io m’avviai dietro a quella donna.
“Si chiude” il guardiano gridò. “Si chiude”.
Gridando “si chiude” si allontanò tra gli alberi.
Io andai dietro alla donna fuori dal giardino, e poi per le strade della città.
La seguii dietro a quello ch’era stato il suono dei suoi passi sulla ghiaia. Posso dire anzi: guidato dal ricordo dei suoi passi. E fu un camminare lungo, un seguire lungo, ora nella folla e ora per marciapiedi solitarii fino a che, per la prima volta, nona lzai gli occhi e la vidi, una passante, nella luce dell’ultimo negozio.
Vidi i suoi capelli, invero. Non altro.Ed ebbi paura di perderla, cominciai a correre.
La città, a quelle latitudini, si alternava in prati e alte case, Campi di Marte oscuri e fiere di lumi, con l’occhio rosso del gasogeno al fondo. Domandai più volte: “E’ passata di qua?”
Tutti mi rispondevano di non sapere.
Ma una bambina beffarda si avvicinò, veloce sui pattini a rotelle e rise.
“Aaaah!” rise. “Scommetto che cerchi mia sorella”.
“Tua sorella?” io esclamai. “Come si chiama?”
“Non te lo dico” la bambina rispose.
E di nuovo rise; fece, sui suoi pattini, un giro di danza della morte intorno a me.
“Aaaah!” rise.
“Dimmi allora dov’è” io le domandai.
“Ahhh!” la bambina rise. “E’ in un portone”.
Turbinò intorno a me nelal sua danza delal morte ancora un minuto, poi pattinò via sull’infinito viale, e rideva.
“E’ in un portone” gridò da lungi, ridendo.
C’erano abbiette coppie nei portoni ma io giunsi ad uno ch’era deserto e ignudo. Il battente si aprì quando lo spinsi, salii le scale e cominciai a sentir piangere.
“E’ lei che piange?”chiesi alla portinaia.
La vecchia dormiva seduta ametà delle scale, coi suoi stracci in mano, e si svegliò, mi guardò.
“Non so” rispose. “Volete l’ascensore’”
Io non lo volli, volevo andare sino a quel pianto, e continuai a salire le scale tra le nere finestre spalancate. Arrivai infine dov’era il pianto; dietro un uscio bianco. Entrai e l’ebbi vicino, accesi la luce.
Ma non vidi nella stanza nessuno, né udii più nulla. Pure, sul divano, c’era il fazzoletto delle sue lagrime.
E.V. (1939)